‘’Non esistono neri italiani’’. Me l’hanno detto molte volte, ma mai in faccia e mai con le parole. Me lo hanno detto con il loro corpo, con i loro sguardi, con la loro mimica, con le loro reazioni quando alla domanda ‘’dove sei nato?’’ rispondevo ‘’Busto Arsizio’’.
Lo capisci quando qualcuno pensa che non esistono neri italiani. Ti puoi convincere di essere forte, ma certe cose minano le tue sicurezze, a prescindere dal tuo carattere e dalla tua capacità di fregartene. Da piccolo non riuscivo a tifare l’Italia. ho pensato che io non potevo riconoscermi in quei giocatori, in quella divisa.
Tutto cambiò con Balotelli. La semifinale e quella incredibile doppietta. Esultai come un folle, una gioia che non si spiega, come se qualcuno mi avesse liberato di un peso. Ma durò poco, mesi. Davanti allo schermo, circondato da colori azzurri, tra le gente mi domando io chi sono, noi chi siamo. E anche qui sono le emozioni a darmi risposta. Il goal di Locatelli dopo una corsa di 60 metri, quello di sinistro da 20 metri e la mia reazione ad ogni goal. Le emozioni di quel momento mi dicono qualcosa. Parole che per anni non sono stato in grado di decifrare. Mi guardo intorno ed è bello sentire che vogliamo tutti la stessa cosa. Uscirne vincenti.
Se voglio vincere non devo più lottare affinché gli altri lo accettino, perché non c’è nulla da accettare. Le cose cambiano quando sei tu, in primis, ad accertarti e a definire chi sei e a chiamarti con le giuste parole. Se vogliamo vincere dobbiamo credere alla voce dentro di noi e continuare a sognare. Io per esempio sogno un’Italia che non guardi più al passato, ma che abbia la forza di determinarsi nel presente e nel futuro. Nel futuro dell’Italia spero che i miei nipoti saranno più forti di me. Che a quegli sguardi che dicono che non esistono neri italiani riusciranno ad avere la forza e la lucidità di dire ‘’Non è vero. Io lo sono’’.
Forza Italia. Andiamo a vincere.
@pumafootball
#onlyseegreat #adv
‘’Non esistono neri italiani’’. Me l’hanno detto molte volte, ma mai in faccia e mai con le parole. Me lo hanno detto con il loro corpo, con i loro sguardi, con la loro mimica, con le loro reazioni quando alla domanda ‘’dove sei nato?’’ rispondevo ‘’Busto Arsizio’’.
Lo capisci quando qualcuno pensa che non esistono neri italiani. Ti puoi convincere di essere forte, ma certe cose minano le tue sicurezze, a prescindere dal tuo carattere e dalla tua capacità di fregartene. Da piccolo non riuscivo a tifare l’Italia. ho pensato che io non potevo riconoscermi in quei giocatori, in quella divisa.
Tutto cambiò con Balotelli. La semifinale e quella incredibile doppietta. Esultai come un folle, una gioia che non si spiega, come se qualcuno mi avesse liberato di un peso. Ma durò poco, mesi. Davanti allo schermo, circondato da colori azzurri, tra le gente mi domando io chi sono, noi chi siamo. E anche qui sono le emozioni a darmi risposta. Il goal di Locatelli dopo una corsa di 60 metri, quello di sinistro da 20 metri e la mia reazione ad ogni goal. Le emozioni di quel momento mi dicono qualcosa. Parole che per anni non sono stato in grado di decifrare. Mi guardo intorno ed è bello sentire che vogliamo tutti la stessa cosa. Uscirne vincenti.
Se voglio vincere non devo più lottare affinché gli altri lo accettino, perché non c’è nulla da accettare. Le cose cambiano quando sei tu, in primis, ad accertarti e a definire chi sei e a chiamarti con le giuste parole. Se vogliamo vincere dobbiamo credere alla voce dentro di noi e continuare a sognare. Io per esempio sogno un’Italia che non guardi più al passato, ma che abbia la forza di determinarsi nel presente e nel futuro. Nel futuro dell’Italia spero che i miei nipoti saranno più forti di me. Che a quegli sguardi che dicono che non esistono neri italiani riusciranno ad avere la forza e la lucidità di dire ‘’Non è vero. Io lo sono’’.
Forza Italia. Andiamo a vincere.
@pumafootball
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‘’Non esistono neri italiani’’. Me l’hanno detto molte volte, ma mai in faccia e mai con le parole. Me lo hanno detto con il loro corpo, con i loro sguardi, con la loro mimica, con le loro reazioni quando alla domanda ‘’dove sei nato?’’ rispondevo ‘’Busto Arsizio’’.
Lo capisci quando qualcuno pensa che non esistono neri italiani. Ti puoi convincere di essere forte, ma certe cose minano le tue sicurezze, a prescindere dal tuo carattere e dalla tua capacità di fregartene. Da piccolo non riuscivo a tifare l’Italia. ho pensato che io non potevo riconoscermi in quei giocatori, in quella divisa.
Tutto cambiò con Balotelli. La semifinale e quella incredibile doppietta. Esultai come un folle, una gioia che non si spiega, come se qualcuno mi avesse liberato di un peso. Ma durò poco, mesi. Davanti allo schermo, circondato da colori azzurri, tra le gente mi domando io chi sono, noi chi siamo. E anche qui sono le emozioni a darmi risposta. Il goal di Locatelli dopo una corsa di 60 metri, quello di sinistro da 20 metri e la mia reazione ad ogni goal. Le emozioni di quel momento mi dicono qualcosa. Parole che per anni non sono stato in grado di decifrare. Mi guardo intorno ed è bello sentire che vogliamo tutti la stessa cosa. Uscirne vincenti.
Se voglio vincere non devo più lottare affinché gli altri lo accettino, perché non c’è nulla da accettare. Le cose cambiano quando sei tu, in primis, ad accertarti e a definire chi sei e a chiamarti con le giuste parole. Se vogliamo vincere dobbiamo credere alla voce dentro di noi e continuare a sognare. Io per esempio sogno un’Italia che non guardi più al passato, ma che abbia la forza di determinarsi nel presente e nel futuro. Nel futuro dell’Italia spero che i miei nipoti saranno più forti di me. Che a quegli sguardi che dicono che non esistono neri italiani riusciranno ad avere la forza e la lucidità di dire ‘’Non è vero. Io lo sono’’.
Forza Italia. Andiamo a vincere.
@pumafootball
#onlyseegreat #adv
29 anni.
primo compleanno in angola.
vedere mio nonno dopo vent’anni.
mia nonna e la sua strana ironia.
io dovrei ricordarmi che esiste sempre una strada migliore da percorrere.
la via che ho percorso più volte quest’anno mi ha portato lontano da ciò che mi rende infelice.
come chi entra in biblioteca, così che nessuno gli possa parlare.
ho smesso di rispondere, di credere che fossero miei amici, che senza di te avrei fatto fatica a guardare fuori.
ci sono tante cose che vanno migliorate, tanti piccoli problemi che riaffiorano, problemi di sonno, a relazionarmi con chi non mi ha fatto nulla mentre la mia mente elabora tutti i modi e le armi con cui potrebbero ferirmi. ma se penso alla mia vita posso solo dire che sono un ragazzo fortunato. che sono una persona forte.
quest’anno voglio raddoppiare il fatturato, scrivere un’altra serie, avere il coraggio di scegliere un posto dove la mia voce conti qualcosa, fare al meglio il mio primo film, strutturare sempre di più esse e la mia società, aprire un’attività in angola, riposare ogni tanto senza sentirmi in colpa. usare meno instagram, perché è tutto finto qui e mi spiace. mi hanno sempre criticato in ogni cosa che ho fatto ma sono ancora qui. sappiate scegliere i consigli, circondatevi di persone vere e prima di pensare agli altri, pensate a voi stessi. in aereoporto l’autista dell’autobus mi ha guardato e ha detto “benvenuto a casa”. Luanda, Angola
non starò più male per te un giorno, sarai lontana, io sarò bello da non crederci e tu non crederai che mi sarò abituato a non averti al mio fianco. e anche se sei stata la sensazione che la vita ad un tratto avesse voluto restituirmi qualcosa, vedendoti non mi sentirò più in colpa, perché si sbaglia sempre e l’ho capito tardi. l’ho capito quando la gola cominciava a strozzarsi per le lacrime e piangere in silenzio faceva un immenso rumore di solitudine. non sai quanto avrei potuto darti se me l’avessi concesso. non sai quanto ci soffrivo quando t’interrompevi come se certe cose non potessi capirle. fare il possibile per non vederti sperando d’incontrarti, fare il possibile per dimenticarti sperando di fallire. non ti chiederò più scusa per errori che non ho fatto, non mi scuserò più per la persona che non sono. non terrò più dentro quello che realmente penso di te per non farti male, perché tu non mi hai mai protetto. Il dolore non aiuta a crescere, l’amore non cura le ferite, te le fa scordare, come i baci dopo i litigi. non starò più male per te. un giorno starò bene, e avrò un sorriso talmente grande che le persone che non vedo da un po’ non mi chiederanno “dove sei finito?” ma “dove sei iniziato?”.
ti auguro tutto il bene che ti voglio.
ti auguro tutto il bene che ti voglio.
prossima settimana per la prima volta nella mia vita andrò in angola.
ho risolto dei problemi che mi permetteranno di rivedere i miei nonni. vedere la terra dei miei genitori ed essere visto come uno straniero mi farà sorridere. mi fa già in realtà. sono strane le prime volte, più belle quando non lo sai. in treno per roma a marzo ho sentito spesso persone molto più grandi di me parlare ancora di desideri irrealizzati, di rimpianti e mi sono dato dello stupido perché in ventotto anni ho fatto tante cose e non mi sono mai goduto niente. i soldi non mi hanno reso felice, ma solo più tranquillo mio padre. hanno solo rimandato all’attimo prima di dormire l’ansia. sono strane le mancanze lancinanti di persone che ormai dovrebbero sentirsi appagate. mi dico che devo passare meno tempo al telefono perché tanto non parlo con nessuno. devo tornare a leggere tanto e a pensare al libro nuovo, al film, al nuovo ufficio, la casa che sto per comprare a milano e che non ti piaceva, a tutti i progetti che mi scrivo nelle note. non mi capacito di come le persone cerchino la libertà dove non c’è. di come a volte la cerchi qui, tra gli apprezzamenti ad un post e le visualizzazioni ad una storia. ho detto ai miei amici che voglio diplomarmi e mi hanno detto che non mi servirà. che a metà strada mi tirerò indietro come ho sempre fatto. loro non sanno che dopo che ti ho lasciata ho imparato a pensarci due volte. ma tu mi tratti come l’africa, prendi il meglio di me e poi te ne vai. comunque sono stanco di litigare, stanco di ripetermi che non vale la pena incazzarsi. mi fa piacere che la gente in strada mi chieda della serie, qualcuno urla il mio nome, qualcuno mi stringe la mano dopo una rampa di scale. mio padre sorride quando succede. in quegli attimi penso a quando da bambino mi diceva “ in questo paese devi sempre usare la testa. loro penseranno di conoscerti. che hai il crimine nel dna ma tu dovrai sorprenderli”. sorrido perché tra tutti ho sorpreso anche lui. ho risolto dei problemi che mi permetteranno di andare in angola quest’anno. vedere la terra dei miei genitori ed essere visto come uno straniero mi farà sorridere. mi fa già in realtà.
prossima settimana per la prima volta nella mia vita andrò in angola.
ho risolto dei problemi che mi permetteranno di rivedere i miei nonni. vedere la terra dei miei genitori ed essere visto come uno straniero mi farà sorridere. mi fa già in realtà. sono strane le prime volte, più belle quando non lo sai. in treno per roma a marzo ho sentito spesso persone molto più grandi di me parlare ancora di desideri irrealizzati, di rimpianti e mi sono dato dello stupido perché in ventotto anni ho fatto tante cose e non mi sono mai goduto niente. i soldi non mi hanno reso felice, ma solo più tranquillo mio padre. hanno solo rimandato all’attimo prima di dormire l’ansia. sono strane le mancanze lancinanti di persone che ormai dovrebbero sentirsi appagate. mi dico che devo passare meno tempo al telefono perché tanto non parlo con nessuno. devo tornare a leggere tanto e a pensare al libro nuovo, al film, al nuovo ufficio, la casa che sto per comprare a milano e che non ti piaceva, a tutti i progetti che mi scrivo nelle note. non mi capacito di come le persone cerchino la libertà dove non c’è. di come a volte la cerchi qui, tra gli apprezzamenti ad un post e le visualizzazioni ad una storia. ho detto ai miei amici che voglio diplomarmi e mi hanno detto che non mi servirà. che a metà strada mi tirerò indietro come ho sempre fatto. loro non sanno che dopo che ti ho lasciata ho imparato a pensarci due volte. ma tu mi tratti come l’africa, prendi il meglio di me e poi te ne vai. comunque sono stanco di litigare, stanco di ripetermi che non vale la pena incazzarsi. mi fa piacere che la gente in strada mi chieda della serie, qualcuno urla il mio nome, qualcuno mi stringe la mano dopo una rampa di scale. mio padre sorride quando succede. in quegli attimi penso a quando da bambino mi diceva “ in questo paese devi sempre usare la testa. loro penseranno di conoscerti. che hai il crimine nel dna ma tu dovrai sorprenderli”. sorrido perché tra tutti ho sorpreso anche lui. ho risolto dei problemi che mi permetteranno di andare in angola quest’anno. vedere la terra dei miei genitori ed essere visto come uno straniero mi farà sorridere. mi fa già in realtà.
prossima settimana per la prima volta nella mia vita andrò in angola.
ho risolto dei problemi che mi permetteranno di rivedere i miei nonni. vedere la terra dei miei genitori ed essere visto come uno straniero mi farà sorridere. mi fa già in realtà. sono strane le prime volte, più belle quando non lo sai. in treno per roma a marzo ho sentito spesso persone molto più grandi di me parlare ancora di desideri irrealizzati, di rimpianti e mi sono dato dello stupido perché in ventotto anni ho fatto tante cose e non mi sono mai goduto niente. i soldi non mi hanno reso felice, ma solo più tranquillo mio padre. hanno solo rimandato all’attimo prima di dormire l’ansia. sono strane le mancanze lancinanti di persone che ormai dovrebbero sentirsi appagate. mi dico che devo passare meno tempo al telefono perché tanto non parlo con nessuno. devo tornare a leggere tanto e a pensare al libro nuovo, al film, al nuovo ufficio, la casa che sto per comprare a milano e che non ti piaceva, a tutti i progetti che mi scrivo nelle note. non mi capacito di come le persone cerchino la libertà dove non c’è. di come a volte la cerchi qui, tra gli apprezzamenti ad un post e le visualizzazioni ad una storia. ho detto ai miei amici che voglio diplomarmi e mi hanno detto che non mi servirà. che a metà strada mi tirerò indietro come ho sempre fatto. loro non sanno che dopo che ti ho lasciata ho imparato a pensarci due volte. ma tu mi tratti come l’africa, prendi il meglio di me e poi te ne vai. comunque sono stanco di litigare, stanco di ripetermi che non vale la pena incazzarsi. mi fa piacere che la gente in strada mi chieda della serie, qualcuno urla il mio nome, qualcuno mi stringe la mano dopo una rampa di scale. mio padre sorride quando succede. in quegli attimi penso a quando da bambino mi diceva “ in questo paese devi sempre usare la testa. loro penseranno di conoscerti. che hai il crimine nel dna ma tu dovrai sorprenderli”. sorrido perché tra tutti ho sorpreso anche lui. ho risolto dei problemi che mi permetteranno di andare in angola quest’anno. vedere la terra dei miei genitori ed essere visto come uno straniero mi farà sorridere. mi fa già in realtà.
prossima settimana per la prima volta nella mia vita andrò in angola.
ho risolto dei problemi che mi permetteranno di rivedere i miei nonni. vedere la terra dei miei genitori ed essere visto come uno straniero mi farà sorridere. mi fa già in realtà. sono strane le prime volte, più belle quando non lo sai. in treno per roma a marzo ho sentito spesso persone molto più grandi di me parlare ancora di desideri irrealizzati, di rimpianti e mi sono dato dello stupido perché in ventotto anni ho fatto tante cose e non mi sono mai goduto niente. i soldi non mi hanno reso felice, ma solo più tranquillo mio padre. hanno solo rimandato all’attimo prima di dormire l’ansia. sono strane le mancanze lancinanti di persone che ormai dovrebbero sentirsi appagate. mi dico che devo passare meno tempo al telefono perché tanto non parlo con nessuno. devo tornare a leggere tanto e a pensare al libro nuovo, al film, al nuovo ufficio, la casa che sto per comprare a milano e che non ti piaceva, a tutti i progetti che mi scrivo nelle note. non mi capacito di come le persone cerchino la libertà dove non c’è. di come a volte la cerchi qui, tra gli apprezzamenti ad un post e le visualizzazioni ad una storia. ho detto ai miei amici che voglio diplomarmi e mi hanno detto che non mi servirà. che a metà strada mi tirerò indietro come ho sempre fatto. loro non sanno che dopo che ti ho lasciata ho imparato a pensarci due volte. ma tu mi tratti come l’africa, prendi il meglio di me e poi te ne vai. comunque sono stanco di litigare, stanco di ripetermi che non vale la pena incazzarsi. mi fa piacere che la gente in strada mi chieda della serie, qualcuno urla il mio nome, qualcuno mi stringe la mano dopo una rampa di scale. mio padre sorride quando succede. in quegli attimi penso a quando da bambino mi diceva “ in questo paese devi sempre usare la testa. loro penseranno di conoscerti. che hai il crimine nel dna ma tu dovrai sorprenderli”. sorrido perché tra tutti ho sorpreso anche lui. ho risolto dei problemi che mi permetteranno di andare in angola quest’anno. vedere la terra dei miei genitori ed essere visto come uno straniero mi farà sorridere. mi fa già in realtà.
mi manchi un po’ e non posso fartelo sapere.
mi hai fatto tornare a casa sulla mia bicicletta e questa volta eri tu a non volermi abbracciare, mi hai lasciato sul marciapiede come una sedia rotta senza chiamare nessuno per farla portare via. credevo avresti avuto la pazienza di ripararmi col tempo. ho fatto finta di niente e superando le auto parcheggiate ho iniziato a pedalare. ho subito ricordato la sensazione da cui mi ero promesso di non farmi travolgere ancora, la delusione, la stretta al cuore e la volontà di trattenere le lacrime mentre scappavo il più veloce possibile.
mi sono sentito in colpa di nuovo, sbagliato per te, per le relazioni. che se finisce sempre tutto prima che possa iniziare é colpa mia e dei miei tempi. ti avevo scritto “e chi mi dice che poi non mi farai stare male?” per giustificare la mia apatia e potermi scusare se ti sentivi respinta. abbiamo parlato due lingue diverse fin da subito ma hai finto di capirmi. magari é colpa tua o soltanto mia.
mi ripetevi che io sono egoista e pensavo solamente a dirti quanto per me fosse difficile, rifiutandomi di far andare le cose diversamente. ti odio perché io non ti andavo mai bene e il tuo bisogno di rimproverare l’hai scagliato contro la mia incapacità di sapermi esprimere. allora perché a me un po’ manchi?
perché le cose che iniziano in modo difficile non possono continuare diversamente?
mi manchi un po’ e non posso fartelo sapere.
mi hai fatto tornare a casa sulla mia bicicletta e questa volta eri tu a non volermi abbracciare, mi hai lasciato sul marciapiede come una sedia rotta senza chiamare nessuno per farla portare via. credevo avresti avuto la pazienza di ripararmi col tempo. ho fatto finta di niente e superando le auto parcheggiate ho iniziato a pedalare. ho subito ricordato la sensazione da cui mi ero promesso di non farmi travolgere ancora, la delusione, la stretta al cuore e la volontà di trattenere le lacrime mentre scappavo il più veloce possibile.
mi sono sentito in colpa di nuovo, sbagliato per te, per le relazioni. che se finisce sempre tutto prima che possa iniziare é colpa mia e dei miei tempi. ti avevo scritto “e chi mi dice che poi non mi farai stare male?” per giustificare la mia apatia e potermi scusare se ti sentivi respinta. abbiamo parlato due lingue diverse fin da subito ma hai finto di capirmi. magari é colpa tua o soltanto mia.
mi ripetevi che io sono egoista e pensavo solamente a dirti quanto per me fosse difficile, rifiutandomi di far andare le cose diversamente. ti odio perché io non ti andavo mai bene e il tuo bisogno di rimproverare l’hai scagliato contro la mia incapacità di sapermi esprimere. allora perché a me un po’ manchi?
perché le cose che iniziano in modo difficile non possono continuare diversamente?
bad boyz feat barrington levy.
bad boyz feat barrington levy.
ad un certo punto basta. è giusto che quella porta resti chiusa. e che rimanga fuori dalla nostra vita lei con tutti i suoi ricordi. niente più porte, niente più vincolo, niente più rincorse. arriva il momento in cui se l’amore ci dev’essere, deve solo aggiungere mai togliere. io dico a tutte di averlo capito. la mia voce è ferma e omette tutte quelle volte che ho commesso l’errore di aspettare di essere pronto. “perché non la lasci?” mi chiese anita prima di salutarmi. si stava mettendo il velcro sotto il mento per sistemarsi il casco. le canzoni dei verdena arrivavano da una finestra sopra di noi e io sorpreso risposi con una domanda. “perché dovrei”?. le risposte le avevo tutte. non ero felice, non ero orgoglioso di me e continuavo a ripetermi che quel dolore mi sarebbe servito. il peso che ti fa sentire un peso, la solitudine che ti spaventa più delle persone. c’è stato un momento in cui ho capito che il tempo in certi casi non c’entra, che ci sono che iniziano solo per uno dei due, che la metà non fa il tutto e l’amore non si sottrae alle logiche della matematica. elena l’ho lasciata per messaggio perché pensavo ancora a lei, alle cose da sistemare. come quando stai per uscire dal palazzo e ti ricordi di aver lasciato la porta aperta e corri a controllare se è tutto vero. ad un certo punto basta. le mie piante non possono continuare a morire. allontanarmi da chi mi chiede di te e mi parla come se mentissi quando dico che non c’è più spazio, quando dico che sto facendo altro e che ne sono in grado. “stavate bene insieme” e non si rendono conto che anche in quei momenti a tavola in cui ridevamo c’era tensione tra di noi. a ventinove anni sto imparando cose piccole, banali. ecco io non ho bisogno di comparse, ma di presenze che ne valgano la pena.
ad un certo punto basta. è giusto che quella porta resti chiusa. e che rimanga fuori dalla nostra vita lei con tutti i suoi ricordi. niente più porte, niente più vincolo, niente più rincorse. arriva il momento in cui se l’amore ci dev’essere, deve solo aggiungere mai togliere. io dico a tutte di averlo capito. la mia voce è ferma e omette tutte quelle volte che ho commesso l’errore di aspettare di essere pronto. “perché non la lasci?” mi chiese anita prima di salutarmi. si stava mettendo il velcro sotto il mento per sistemarsi il casco. le canzoni dei verdena arrivavano da una finestra sopra di noi e io sorpreso risposi con una domanda. “perché dovrei”?. le risposte le avevo tutte. non ero felice, non ero orgoglioso di me e continuavo a ripetermi che quel dolore mi sarebbe servito. il peso che ti fa sentire un peso, la solitudine che ti spaventa più delle persone. c’è stato un momento in cui ho capito che il tempo in certi casi non c’entra, che ci sono che iniziano solo per uno dei due, che la metà non fa il tutto e l’amore non si sottrae alle logiche della matematica. elena l’ho lasciata per messaggio perché pensavo ancora a lei, alle cose da sistemare. come quando stai per uscire dal palazzo e ti ricordi di aver lasciato la porta aperta e corri a controllare se è tutto vero. ad un certo punto basta. le mie piante non possono continuare a morire. allontanarmi da chi mi chiede di te e mi parla come se mentissi quando dico che non c’è più spazio, quando dico che sto facendo altro e che ne sono in grado. “stavate bene insieme” e non si rendono conto che anche in quei momenti a tavola in cui ridevamo c’era tensione tra di noi. a ventinove anni sto imparando cose piccole, banali. ecco io non ho bisogno di comparse, ma di presenze che ne valgano la pena.
papà mi ha chiamato su whatsapp e mi ha detto che non lo cerco mai.
ho risposto istintivamente “non è vero” ma avrei voluto dirgli “scusami, hai ragione”. quando rientro a casa lo trovo sempre in salotto, davanti alla televisione. guarda documentari. riconosco la voce di mobutu all’istante. papà è uomo di poche parole, sorride e chiede sempre se ho già mangiato. si è convinto per non so quale motivo che io ami le pesche. glielo lascio credere, le mangiamo insieme senza commentare. mi parla in lingala, rispondo in lingala. quando rientro a milano lascio cento euro sulla testa del letto, convinto basti.
non gli rivolgo mai la parola in quei
momenti, faccio tutto in silenzio.
entro in camera mentre dorme o è
sotto la doccia. io e lui non abbiamo mai avuto intense conversazioni.
lui non ama il calcio, non guarda le serie tv. mi parla di luanda, dei coloni, della rumba congolese. non chiedo nulla, ascolto soltanto perché un po’ mi vergogno. mi ha cresciuto dicendomi le cose poco per volta, come un imbuto.
mi ha insegnato come stare senza una figura importante e sopravvivere
comunque. al di là dei suoi limiti.
ho creduto per anni che il suo silenzio significasse non avere bisogno di nulla.
che non gli servisse un abbraccio perché non lo aveva mai chiesto, che non volesse avere vicino suo figlio perché non gli aveva mai proposto di tornare a casa da quando si era trasferito a milano. si è preoccupato per me, ha guardato il mio sonno ed io non gli ho mai dimostrato di non averlo dimenticato. ho sbagliato tanto negli ultimi anni perché mi sono convinto che i soldi e le attenzioni fossero la stessa cosa.
tranne rare eccezioni usavi la maglia del milan per dormire. lo facevi perché mi infastidiva. leggevi libri mentre guardavo le partite. mi chiedevi di abbassare il volume, di non urlare, di non prendermela con biglia perché non verticalizzava mai. sorridevo perché non ci capivi niente. mi manchi quando mi nascondo dalle persone per poterle osservare, quando nello scontro con i miei malumori sento la necessità di trovare un centro, qualcuno a cui non devo spiegare le mie cicatrici e che verticalizzi. ho pianto perché di me non hai mai capito niente. ti veniva voglia di scopare e mi facevi un pompino. mi scrivevi di andare in bagno e in quelle cene tra ragazzi bianchi e noiosi dove ti divertivi sparivamo per qualche minuto. mi guardavi fisso negli occhi e io pensavo fossi mia. per poco credevo esistesse un “nostro”, un “noi. chissà quando sono diventato il ragazzo con cui fare tardi prima di uscire con un altro, prima di uscire con quelli che non conoscevo ma che per non so quale ragione preterivi a me. io ero quello dei consigli, dei problemi e delle soluzioni. quello che “tanto aspetta in macchina”. ero la risposta certa prima che cadesse la linea, il cellulare mai occupato. “mi fai entrare?”. tornavi quando ti sentivi sola, una troia, quando avevi bisogno di sentirti amata da qualcuno che ti amava davvero. dopo ogni ”basta” non ho saputo mettere un punto. sono sempre scivolato via, ho sempre avuto l’esigenza di spiegarmi meglio, di ascoltare tutte le tue versioni. io sono fatto così, non ho mai smesso di tornare a casa con le ginocchia sbucciate alla fine del giorno.
tranne rare eccezioni usavi la maglia del milan per dormire. lo facevi perché mi infastidiva. leggevi libri mentre guardavo le partite. mi chiedevi di abbassare il volume, di non urlare, di non prendermela con biglia perché non verticalizzava mai. sorridevo perché non ci capivi niente. mi manchi quando mi nascondo dalle persone per poterle osservare, quando nello scontro con i miei malumori sento la necessità di trovare un centro, qualcuno a cui non devo spiegare le mie cicatrici e che verticalizzi. ho pianto perché di me non hai mai capito niente. ti veniva voglia di scopare e mi facevi un pompino. mi scrivevi di andare in bagno e in quelle cene tra ragazzi bianchi e noiosi dove ti divertivi sparivamo per qualche minuto. mi guardavi fisso negli occhi e io pensavo fossi mia. per poco credevo esistesse un “nostro”, un “noi. chissà quando sono diventato il ragazzo con cui fare tardi prima di uscire con un altro, prima di uscire con quelli che non conoscevo ma che per non so quale ragione preterivi a me. io ero quello dei consigli, dei problemi e delle soluzioni. quello che “tanto aspetta in macchina”. ero la risposta certa prima che cadesse la linea, il cellulare mai occupato. “mi fai entrare?”. tornavi quando ti sentivi sola, una troia, quando avevi bisogno di sentirti amata da qualcuno che ti amava davvero. dopo ogni ”basta” non ho saputo mettere un punto. sono sempre scivolato via, ho sempre avuto l’esigenza di spiegarmi meglio, di ascoltare tutte le tue versioni. io sono fatto così, non ho mai smesso di tornare a casa con le ginocchia sbucciate alla fine del giorno.
Sul set della quarta stagione di Basement Café. @lavazzait continua a credere in questo pazzo progetto e spero che lo continuerà a fare nei prossimi anni. Anche quest’anno intervisto alcuni dei miei idoli da ragazzino.
Non vedo l’ora che la vediate.
Viva Basement Café.
le domande che più fanno male sono sempre quelle di cui sai già la risposta. quelle che ti ripeti continuamente,
mentre ti parlano, tra la gente, sul naviglio pavese in bici da solo.
nell’ultimo anno ho deciso di darmi una possibilità, di fare un passo verso qualcosa ogni volta che sento che nessuno riesca davvero a vedermi.
le scrissi “ ti auguro che chiunque ti guardi riesca davvero a vederti “. mi rispose che non era possibile. fermo in piazza napoli quella sera non entrai al ducale. fare un passo, dicevo.
quest’anno sto provando a farne tanti, a volte inciampo, altre invece ne faccio due di seguito e mi accorgo solo più tardi. in osteria, verde mi ha detto di fare più esperienze possibili perché il tempo passa e non ti accorgi. un po’ come quando ti innamori. in osteria a parlare di murakami e di piacenza. della mia paura di finire i libri che scrivo. dico a tutti che prima ero diverso. questo è il mio anno del “si”. “l’anno in cui farò tutte quelle cose che prima non facevo e rifiutavo senza nemmeno leggere”. carmine ha sorriso quando gliel’ho detto. nella vita mi hanno salvato sempre le stesse cose: i libri, kanye, il tempo, le volte che mi sono stupito, le cose belle.
alla galleria borghese ho fatto un altro passo e ho avuto l’occasione di ammirare la bellissima mostra di damien hirst.
grazie @prada per questa bellissima esperienza. le aziende sono fatte di persone, vi voglio bene.
le domande che più fanno male sono sempre quelle di cui sai già la risposta. quelle che ti ripeti continuamente,
mentre ti parlano, tra la gente, sul naviglio pavese in bici da solo.
nell’ultimo anno ho deciso di darmi una possibilità, di fare un passo verso qualcosa ogni volta che sento che nessuno riesca davvero a vedermi.
le scrissi “ ti auguro che chiunque ti guardi riesca davvero a vederti “. mi rispose che non era possibile. fermo in piazza napoli quella sera non entrai al ducale. fare un passo, dicevo.
quest’anno sto provando a farne tanti, a volte inciampo, altre invece ne faccio due di seguito e mi accorgo solo più tardi. in osteria, verde mi ha detto di fare più esperienze possibili perché il tempo passa e non ti accorgi. un po’ come quando ti innamori. in osteria a parlare di murakami e di piacenza. della mia paura di finire i libri che scrivo. dico a tutti che prima ero diverso. questo è il mio anno del “si”. “l’anno in cui farò tutte quelle cose che prima non facevo e rifiutavo senza nemmeno leggere”. carmine ha sorriso quando gliel’ho detto. nella vita mi hanno salvato sempre le stesse cose: i libri, kanye, il tempo, le volte che mi sono stupito, le cose belle.
alla galleria borghese ho fatto un altro passo e ho avuto l’occasione di ammirare la bellissima mostra di damien hirst.
grazie @prada per questa bellissima esperienza. le aziende sono fatte di persone, vi voglio bene.