Angelina Mango improvvisa all’Eurovision “Imagine” di John Lennon e, come ha scritto letteralmente ogni giornale italiano, “lancia il suo messaggio di pace”. Con tutta la simpatia per la cantante, direi che ci saremmo anche stancati, dopo 8 mesi e più di 35k morti, di questa retorica melensa e PERICOLOSA. Scriveva Fisher che il capitalismo produce discorsi/eventi apparentemente di rottura, ma ai quali “possiamo partecipare tutti”. Ovvero che non incrinano nulla, che non trasformano nulla, che danno l’illusione di essere dalla parte giusta senza individuare alcun responsabile per i mali del mondo ( e dunque di fatto senza proporre alcuna soluzione). La parola PACE è spesso al centro di questa strategia. Chi vuole che la gente soffra? Muoia? Debba scappare dalla propria casa o vederla distrutta? NESSUNO. Dunque chi vuole la guerra (e non la pace)? NESSUNO. Chi è responsabile di questi morti (o della crisi climatica, o delle condizioni di sfruttamento sul lavoro, etc.)? Nessuno, perché nessuno li vuole. Sono semplicemente COSE CHE CAPITANO. Si tratta della stessa strategia che prevede, di fronte al dilagare del razzismo negli USA, alle violenze della polizia che lo slogan da usare non sia “le vite delle persone nere contano” (BLM) ma “TUTTE LE VITE CONTANO”. Diviene irrilevante chi concretamente viene ucciso/sfruttato/discriminato, scompaiono vittime e responsabili, cancellati da un appello astratto al valore di tutte le vite. Di fronte a un genoc1di0, non solo non basta affermare: “vogliamo vivere in pace” “W la pace”, ma è anche pericoloso, perché cancella, annega nella melassa, la semplice evidenza che è necessario dire che chi opprime, chi stermina deve essere fermato ad ogni costo. Quali sono, insomma, le condizioni REALI della pace che invochiamo: la cancellazione di un popolo? O il suo riconoscimento? Bisogna avere il coraggio di dire che le vite palestinesi contano, che la pace che vogliono gli oppressori significa stermino, che “fanno il deserto e lo chiamano pace”. 🍉❤
Angelina Mango improvvisa all’Eurovision “Imagine” di John Lennon e, come ha scritto letteralmente ogni giornale italiano, “lancia il suo messaggio di pace”. Con tutta la simpatia per la cantante, direi che ci saremmo anche stancati, dopo 8 mesi e più di 35k morti, di questa retorica melensa e PERICOLOSA. Scriveva Fisher che il capitalismo produce discorsi/eventi apparentemente di rottura, ma ai quali “possiamo partecipare tutti”. Ovvero che non incrinano nulla, che non trasformano nulla, che danno l’illusione di essere dalla parte giusta senza individuare alcun responsabile per i mali del mondo ( e dunque di fatto senza proporre alcuna soluzione). La parola PACE è spesso al centro di questa strategia. Chi vuole che la gente soffra? Muoia? Debba scappare dalla propria casa o vederla distrutta? NESSUNO. Dunque chi vuole la guerra (e non la pace)? NESSUNO. Chi è responsabile di questi morti (o della crisi climatica, o delle condizioni di sfruttamento sul lavoro, etc.)? Nessuno, perché nessuno li vuole. Sono semplicemente COSE CHE CAPITANO. Si tratta della stessa strategia che prevede, di fronte al dilagare del razzismo negli USA, alle violenze della polizia che lo slogan da usare non sia “le vite delle persone nere contano” (BLM) ma “TUTTE LE VITE CONTANO”. Diviene irrilevante chi concretamente viene ucciso/sfruttato/discriminato, scompaiono vittime e responsabili, cancellati da un appello astratto al valore di tutte le vite. Di fronte a un genoc1di0, non solo non basta affermare: “vogliamo vivere in pace” “W la pace”, ma è anche pericoloso, perché cancella, annega nella melassa, la semplice evidenza che è necessario dire che chi opprime, chi stermina deve essere fermato ad ogni costo. Quali sono, insomma, le condizioni REALI della pace che invochiamo: la cancellazione di un popolo? O il suo riconoscimento? Bisogna avere il coraggio di dire che le vite palestinesi contano, che la pace che vogliono gli oppressori significa stermino, che “fanno il deserto e lo chiamano pace”. 🍉❤
Angelina Mango improvvisa all’Eurovision “Imagine” di John Lennon e, come ha scritto letteralmente ogni giornale italiano, “lancia il suo messaggio di pace”. Con tutta la simpatia per la cantante, direi che ci saremmo anche stancati, dopo 8 mesi e più di 35k morti, di questa retorica melensa e PERICOLOSA. Scriveva Fisher che il capitalismo produce discorsi/eventi apparentemente di rottura, ma ai quali “possiamo partecipare tutti”. Ovvero che non incrinano nulla, che non trasformano nulla, che danno l’illusione di essere dalla parte giusta senza individuare alcun responsabile per i mali del mondo ( e dunque di fatto senza proporre alcuna soluzione). La parola PACE è spesso al centro di questa strategia. Chi vuole che la gente soffra? Muoia? Debba scappare dalla propria casa o vederla distrutta? NESSUNO. Dunque chi vuole la guerra (e non la pace)? NESSUNO. Chi è responsabile di questi morti (o della crisi climatica, o delle condizioni di sfruttamento sul lavoro, etc.)? Nessuno, perché nessuno li vuole. Sono semplicemente COSE CHE CAPITANO. Si tratta della stessa strategia che prevede, di fronte al dilagare del razzismo negli USA, alle violenze della polizia che lo slogan da usare non sia “le vite delle persone nere contano” (BLM) ma “TUTTE LE VITE CONTANO”. Diviene irrilevante chi concretamente viene ucciso/sfruttato/discriminato, scompaiono vittime e responsabili, cancellati da un appello astratto al valore di tutte le vite. Di fronte a un genoc1di0, non solo non basta affermare: “vogliamo vivere in pace” “W la pace”, ma è anche pericoloso, perché cancella, annega nella melassa, la semplice evidenza che è necessario dire che chi opprime, chi stermina deve essere fermato ad ogni costo. Quali sono, insomma, le condizioni REALI della pace che invochiamo: la cancellazione di un popolo? O il suo riconoscimento? Bisogna avere il coraggio di dire che le vite palestinesi contano, che la pace che vogliono gli oppressori significa stermino, che “fanno il deserto e lo chiamano pace”. 🍉❤
Angelina Mango improvvisa all’Eurovision “Imagine” di John Lennon e, come ha scritto letteralmente ogni giornale italiano, “lancia il suo messaggio di pace”. Con tutta la simpatia per la cantante, direi che ci saremmo anche stancati, dopo 8 mesi e più di 35k morti, di questa retorica melensa e PERICOLOSA. Scriveva Fisher che il capitalismo produce discorsi/eventi apparentemente di rottura, ma ai quali “possiamo partecipare tutti”. Ovvero che non incrinano nulla, che non trasformano nulla, che danno l’illusione di essere dalla parte giusta senza individuare alcun responsabile per i mali del mondo ( e dunque di fatto senza proporre alcuna soluzione). La parola PACE è spesso al centro di questa strategia. Chi vuole che la gente soffra? Muoia? Debba scappare dalla propria casa o vederla distrutta? NESSUNO. Dunque chi vuole la guerra (e non la pace)? NESSUNO. Chi è responsabile di questi morti (o della crisi climatica, o delle condizioni di sfruttamento sul lavoro, etc.)? Nessuno, perché nessuno li vuole. Sono semplicemente COSE CHE CAPITANO. Si tratta della stessa strategia che prevede, di fronte al dilagare del razzismo negli USA, alle violenze della polizia che lo slogan da usare non sia “le vite delle persone nere contano” (BLM) ma “TUTTE LE VITE CONTANO”. Diviene irrilevante chi concretamente viene ucciso/sfruttato/discriminato, scompaiono vittime e responsabili, cancellati da un appello astratto al valore di tutte le vite. Di fronte a un genoc1di0, non solo non basta affermare: “vogliamo vivere in pace” “W la pace”, ma è anche pericoloso, perché cancella, annega nella melassa, la semplice evidenza che è necessario dire che chi opprime, chi stermina deve essere fermato ad ogni costo. Quali sono, insomma, le condizioni REALI della pace che invochiamo: la cancellazione di un popolo? O il suo riconoscimento? Bisogna avere il coraggio di dire che le vite palestinesi contano, che la pace che vogliono gli oppressori significa stermino, che “fanno il deserto e lo chiamano pace”. 🍉❤
Angelina Mango improvvisa all’Eurovision “Imagine” di John Lennon e, come ha scritto letteralmente ogni giornale italiano, “lancia il suo messaggio di pace”. Con tutta la simpatia per la cantante, direi che ci saremmo anche stancati, dopo 8 mesi e più di 35k morti, di questa retorica melensa e PERICOLOSA. Scriveva Fisher che il capitalismo produce discorsi/eventi apparentemente di rottura, ma ai quali “possiamo partecipare tutti”. Ovvero che non incrinano nulla, che non trasformano nulla, che danno l’illusione di essere dalla parte giusta senza individuare alcun responsabile per i mali del mondo ( e dunque di fatto senza proporre alcuna soluzione). La parola PACE è spesso al centro di questa strategia. Chi vuole che la gente soffra? Muoia? Debba scappare dalla propria casa o vederla distrutta? NESSUNO. Dunque chi vuole la guerra (e non la pace)? NESSUNO. Chi è responsabile di questi morti (o della crisi climatica, o delle condizioni di sfruttamento sul lavoro, etc.)? Nessuno, perché nessuno li vuole. Sono semplicemente COSE CHE CAPITANO. Si tratta della stessa strategia che prevede, di fronte al dilagare del razzismo negli USA, alle violenze della polizia che lo slogan da usare non sia “le vite delle persone nere contano” (BLM) ma “TUTTE LE VITE CONTANO”. Diviene irrilevante chi concretamente viene ucciso/sfruttato/discriminato, scompaiono vittime e responsabili, cancellati da un appello astratto al valore di tutte le vite. Di fronte a un genoc1di0, non solo non basta affermare: “vogliamo vivere in pace” “W la pace”, ma è anche pericoloso, perché cancella, annega nella melassa, la semplice evidenza che è necessario dire che chi opprime, chi stermina deve essere fermato ad ogni costo. Quali sono, insomma, le condizioni REALI della pace che invochiamo: la cancellazione di un popolo? O il suo riconoscimento? Bisogna avere il coraggio di dire che le vite palestinesi contano, che la pace che vogliono gli oppressori significa stermino, che “fanno il deserto e lo chiamano pace”. 🍉❤
Geolier, Sartre e lo spazio di parola del subalterno. Un tempo alle donne si insegnava solo a leggere, ma non a scrivere, perché? P.s. io tifo per i Ricchi&poveri
Fermo per due ragazze in Iran perché non portavano il velo. Disclaimer per i media: Come femministe possiamo schifare contemporaneamente la politica genocida di isr e quella patriarcale e repressiva iraniana. Non abbiamo bisogno di scegliere, non è una partita di calcio. P.s. sempre Free 🍉
Contestati e contestatori.
Facciamo un esercizio di immaginazione. Avete letto i titoli dei giornali oggi? Nemmeno dopo la strage di ieri sono disposti a parlare di genocidio e a denunciare con chiarezza le atrocità di Isr. Ma visto che ci crogioliamo ancora nel dubbio, facciamo finta di credere all’ipotesi che più di cento persone siano morte nella calca per cercare di procurarsi un po’ di cibo. Di credere che, dopo aver visto ospedali bombardati, civili usati come bersagli mobili, prigionieri denudati e umiliati, corpi profanati, sia IMPOSSIBILE che l’esercito israeliano abbia deliberatamente sparato sulla folla. È parecchio difficile, ma proviamo a crederci. Un esercito occupante che rinchiude in un quadrato di terra centinaia di migliaia di persone e che, mentre li bombarda, guarda i superstiti morire di fame e di sete, bere dalle pozzanghere e mangiare l’erba. Che spera che mangino i corpi di altri esseri umani per sopravvivere. Che li riduce a una tale disperazione da calpestarsi a vicenda, da uccidersi per il pane, è meno colpevole? Hanno sparato, ma se anche non lo avessero fatto le loro azioni non sarebbero state meno criminali e disumane.
Facciamo un esercizio di immaginazione. Avete letto i titoli dei giornali oggi? Nemmeno dopo la strage di ieri sono disposti a parlare di genocidio e a denunciare con chiarezza le atrocità di Isr. Ma visto che ci crogioliamo ancora nel dubbio, facciamo finta di credere all’ipotesi che più di cento persone siano morte nella calca per cercare di procurarsi un po’ di cibo. Di credere che, dopo aver visto ospedali bombardati, civili usati come bersagli mobili, prigionieri denudati e umiliati, corpi profanati, sia IMPOSSIBILE che l’esercito israeliano abbia deliberatamente sparato sulla folla. È parecchio difficile, ma proviamo a crederci. Un esercito occupante che rinchiude in un quadrato di terra centinaia di migliaia di persone e che, mentre li bombarda, guarda i superstiti morire di fame e di sete, bere dalle pozzanghere e mangiare l’erba. Che spera che mangino i corpi di altri esseri umani per sopravvivere. Che li riduce a una tale disperazione da calpestarsi a vicenda, da uccidersi per il pane, è meno colpevole? Hanno sparato, ma se anche non lo avessero fatto le loro azioni non sarebbero state meno criminali e disumane.
Facciamo un esercizio di immaginazione. Avete letto i titoli dei giornali oggi? Nemmeno dopo la strage di ieri sono disposti a parlare di genocidio e a denunciare con chiarezza le atrocità di Isr. Ma visto che ci crogioliamo ancora nel dubbio, facciamo finta di credere all’ipotesi che più di cento persone siano morte nella calca per cercare di procurarsi un po’ di cibo. Di credere che, dopo aver visto ospedali bombardati, civili usati come bersagli mobili, prigionieri denudati e umiliati, corpi profanati, sia IMPOSSIBILE che l’esercito israeliano abbia deliberatamente sparato sulla folla. È parecchio difficile, ma proviamo a crederci. Un esercito occupante che rinchiude in un quadrato di terra centinaia di migliaia di persone e che, mentre li bombarda, guarda i superstiti morire di fame e di sete, bere dalle pozzanghere e mangiare l’erba. Che spera che mangino i corpi di altri esseri umani per sopravvivere. Che li riduce a una tale disperazione da calpestarsi a vicenda, da uccidersi per il pane, è meno colpevole? Hanno sparato, ma se anche non lo avessero fatto le loro azioni non sarebbero state meno criminali e disumane.
Facciamo un esercizio di immaginazione. Avete letto i titoli dei giornali oggi? Nemmeno dopo la strage di ieri sono disposti a parlare di genocidio e a denunciare con chiarezza le atrocità di Isr. Ma visto che ci crogioliamo ancora nel dubbio, facciamo finta di credere all’ipotesi che più di cento persone siano morte nella calca per cercare di procurarsi un po’ di cibo. Di credere che, dopo aver visto ospedali bombardati, civili usati come bersagli mobili, prigionieri denudati e umiliati, corpi profanati, sia IMPOSSIBILE che l’esercito israeliano abbia deliberatamente sparato sulla folla. È parecchio difficile, ma proviamo a crederci. Un esercito occupante che rinchiude in un quadrato di terra centinaia di migliaia di persone e che, mentre li bombarda, guarda i superstiti morire di fame e di sete, bere dalle pozzanghere e mangiare l’erba. Che spera che mangino i corpi di altri esseri umani per sopravvivere. Che li riduce a una tale disperazione da calpestarsi a vicenda, da uccidersi per il pane, è meno colpevole? Hanno sparato, ma se anche non lo avessero fatto le loro azioni non sarebbero state meno criminali e disumane.
La cosa più bella che vedrete oggi. #ziocarlo ❤✊🌺 Disegnato da @insunsit
Il discorso sanremese di Giovanni Allevi mi ha riportato alla memoria uno scritto, forse non tra i più famosi, di Virginia Woolf: “Sulla malattia”. Il saggio esamina il rapporto tra malattia e letteratura. Ma non fa solo questo, l’autrice si adopera in una difesa del corpo malato (e no non aspettatevi le classiche banalità sulle piccole cose, stiamo pur sempre parlando di Woolf) mostrando come la posizione di chi è malato, “del giacente”, conferisca a chi l’assume o a chi è costretto ad assumerla, uno sguardo tutto nuovo sulle cose e sul mondo. Una posizione che prendendo le distanze dall’ordinario può spiegarlo e raccontarlo in maniera totalmente altra. Per Woolf – e sarà così anche per Kafka – questo è lo sguardo dello scrittore. Allevi parla dei doni che porta il dolore. Ho sempre diffidato di questo genere di retorica, ma qui non si parla del fatto che la malattia sia un regalo per il quale ringraziare, ma che nella malattia si può trovare una specifica condizione che non è soltanto mancanza, assenza di salute. C’è qualcosa di giusto e vero, mi sembra, in questa lettura della malattia, fisica o mentale che essa sia. Guardare dall’esterno, uscire dal flusso, da una routine fatta di gesti meccanici che rischiano di farci perdere il senso complessivo del nostro passaggio sul mondo. Ma c’è anche qualcosa di profondamente pericoloso: dare valore e cercare un senso nelle piccole cose (la sfera intima, gli affetti) rischia di farci dimenticare delle grandi. Sottrarsi alla routine per riscoprire il piacere per le minuzie quotidiane, anche se sono belle e piene di poesia, rischia di diventare il rovescio in fondo identico di quell’individualismo e di quella società della performance di cui dovrebbe essere la cura. Non siamo che fili d’erba, non dobbiamo portare il peso del mondo sulle spalle, sosteneva Zerocalcare nel suo “Strappare lungo i bordi”. Ma questo rifugio nel piccolo e nell’intimo, per quanto consolatorio, più che una riscoperta a me sembra una ritirata. Questo sguardo nuovo serve a cambiare, sì, il mio mondo ma anche, si spera, il mondo in generale. A farci riscoprire – nella difficoltà, nel dolore – sicuramente grati, ma anche un po’ più “politici”.
Il discorso sanremese di Giovanni Allevi mi ha riportato alla memoria uno scritto, forse non tra i più famosi, di Virginia Woolf: “Sulla malattia”. Il saggio esamina il rapporto tra malattia e letteratura. Ma non fa solo questo, l’autrice si adopera in una difesa del corpo malato (e no non aspettatevi le classiche banalità sulle piccole cose, stiamo pur sempre parlando di Woolf) mostrando come la posizione di chi è malato, “del giacente”, conferisca a chi l’assume o a chi è costretto ad assumerla, uno sguardo tutto nuovo sulle cose e sul mondo. Una posizione che prendendo le distanze dall’ordinario può spiegarlo e raccontarlo in maniera totalmente altra. Per Woolf – e sarà così anche per Kafka – questo è lo sguardo dello scrittore. Allevi parla dei doni che porta il dolore. Ho sempre diffidato di questo genere di retorica, ma qui non si parla del fatto che la malattia sia un regalo per il quale ringraziare, ma che nella malattia si può trovare una specifica condizione che non è soltanto mancanza, assenza di salute. C’è qualcosa di giusto e vero, mi sembra, in questa lettura della malattia, fisica o mentale che essa sia. Guardare dall’esterno, uscire dal flusso, da una routine fatta di gesti meccanici che rischiano di farci perdere il senso complessivo del nostro passaggio sul mondo. Ma c’è anche qualcosa di profondamente pericoloso: dare valore e cercare un senso nelle piccole cose (la sfera intima, gli affetti) rischia di farci dimenticare delle grandi. Sottrarsi alla routine per riscoprire il piacere per le minuzie quotidiane, anche se sono belle e piene di poesia, rischia di diventare il rovescio in fondo identico di quell’individualismo e di quella società della performance di cui dovrebbe essere la cura. Non siamo che fili d’erba, non dobbiamo portare il peso del mondo sulle spalle, sosteneva Zerocalcare nel suo “Strappare lungo i bordi”. Ma questo rifugio nel piccolo e nell’intimo, per quanto consolatorio, più che una riscoperta a me sembra una ritirata. Questo sguardo nuovo serve a cambiare, sì, il mio mondo ma anche, si spera, il mondo in generale. A farci riscoprire – nella difficoltà, nel dolore – sicuramente grati, ma anche un po’ più “politici”.
Il discorso sanremese di Giovanni Allevi mi ha riportato alla memoria uno scritto, forse non tra i più famosi, di Virginia Woolf: “Sulla malattia”. Il saggio esamina il rapporto tra malattia e letteratura. Ma non fa solo questo, l’autrice si adopera in una difesa del corpo malato (e no non aspettatevi le classiche banalità sulle piccole cose, stiamo pur sempre parlando di Woolf) mostrando come la posizione di chi è malato, “del giacente”, conferisca a chi l’assume o a chi è costretto ad assumerla, uno sguardo tutto nuovo sulle cose e sul mondo. Una posizione che prendendo le distanze dall’ordinario può spiegarlo e raccontarlo in maniera totalmente altra. Per Woolf – e sarà così anche per Kafka – questo è lo sguardo dello scrittore. Allevi parla dei doni che porta il dolore. Ho sempre diffidato di questo genere di retorica, ma qui non si parla del fatto che la malattia sia un regalo per il quale ringraziare, ma che nella malattia si può trovare una specifica condizione che non è soltanto mancanza, assenza di salute. C’è qualcosa di giusto e vero, mi sembra, in questa lettura della malattia, fisica o mentale che essa sia. Guardare dall’esterno, uscire dal flusso, da una routine fatta di gesti meccanici che rischiano di farci perdere il senso complessivo del nostro passaggio sul mondo. Ma c’è anche qualcosa di profondamente pericoloso: dare valore e cercare un senso nelle piccole cose (la sfera intima, gli affetti) rischia di farci dimenticare delle grandi. Sottrarsi alla routine per riscoprire il piacere per le minuzie quotidiane, anche se sono belle e piene di poesia, rischia di diventare il rovescio in fondo identico di quell’individualismo e di quella società della performance di cui dovrebbe essere la cura. Non siamo che fili d’erba, non dobbiamo portare il peso del mondo sulle spalle, sosteneva Zerocalcare nel suo “Strappare lungo i bordi”. Ma questo rifugio nel piccolo e nell’intimo, per quanto consolatorio, più che una riscoperta a me sembra una ritirata. Questo sguardo nuovo serve a cambiare, sì, il mio mondo ma anche, si spera, il mondo in generale. A farci riscoprire – nella difficoltà, nel dolore – sicuramente grati, ma anche un po’ più “politici”.
Il discorso sanremese di Giovanni Allevi mi ha riportato alla memoria uno scritto, forse non tra i più famosi, di Virginia Woolf: “Sulla malattia”. Il saggio esamina il rapporto tra malattia e letteratura. Ma non fa solo questo, l’autrice si adopera in una difesa del corpo malato (e no non aspettatevi le classiche banalità sulle piccole cose, stiamo pur sempre parlando di Woolf) mostrando come la posizione di chi è malato, “del giacente”, conferisca a chi l’assume o a chi è costretto ad assumerla, uno sguardo tutto nuovo sulle cose e sul mondo. Una posizione che prendendo le distanze dall’ordinario può spiegarlo e raccontarlo in maniera totalmente altra. Per Woolf – e sarà così anche per Kafka – questo è lo sguardo dello scrittore. Allevi parla dei doni che porta il dolore. Ho sempre diffidato di questo genere di retorica, ma qui non si parla del fatto che la malattia sia un regalo per il quale ringraziare, ma che nella malattia si può trovare una specifica condizione che non è soltanto mancanza, assenza di salute. C’è qualcosa di giusto e vero, mi sembra, in questa lettura della malattia, fisica o mentale che essa sia. Guardare dall’esterno, uscire dal flusso, da una routine fatta di gesti meccanici che rischiano di farci perdere il senso complessivo del nostro passaggio sul mondo. Ma c’è anche qualcosa di profondamente pericoloso: dare valore e cercare un senso nelle piccole cose (la sfera intima, gli affetti) rischia di farci dimenticare delle grandi. Sottrarsi alla routine per riscoprire il piacere per le minuzie quotidiane, anche se sono belle e piene di poesia, rischia di diventare il rovescio in fondo identico di quell’individualismo e di quella società della performance di cui dovrebbe essere la cura. Non siamo che fili d’erba, non dobbiamo portare il peso del mondo sulle spalle, sosteneva Zerocalcare nel suo “Strappare lungo i bordi”. Ma questo rifugio nel piccolo e nell’intimo, per quanto consolatorio, più che una riscoperta a me sembra una ritirata. Questo sguardo nuovo serve a cambiare, sì, il mio mondo ma anche, si spera, il mondo in generale. A farci riscoprire – nella difficoltà, nel dolore – sicuramente grati, ma anche un po’ più “politici”.
Il discorso sanremese di Giovanni Allevi mi ha riportato alla memoria uno scritto, forse non tra i più famosi, di Virginia Woolf: “Sulla malattia”. Il saggio esamina il rapporto tra malattia e letteratura. Ma non fa solo questo, l’autrice si adopera in una difesa del corpo malato (e no non aspettatevi le classiche banalità sulle piccole cose, stiamo pur sempre parlando di Woolf) mostrando come la posizione di chi è malato, “del giacente”, conferisca a chi l’assume o a chi è costretto ad assumerla, uno sguardo tutto nuovo sulle cose e sul mondo. Una posizione che prendendo le distanze dall’ordinario può spiegarlo e raccontarlo in maniera totalmente altra. Per Woolf – e sarà così anche per Kafka – questo è lo sguardo dello scrittore. Allevi parla dei doni che porta il dolore. Ho sempre diffidato di questo genere di retorica, ma qui non si parla del fatto che la malattia sia un regalo per il quale ringraziare, ma che nella malattia si può trovare una specifica condizione che non è soltanto mancanza, assenza di salute. C’è qualcosa di giusto e vero, mi sembra, in questa lettura della malattia, fisica o mentale che essa sia. Guardare dall’esterno, uscire dal flusso, da una routine fatta di gesti meccanici che rischiano di farci perdere il senso complessivo del nostro passaggio sul mondo. Ma c’è anche qualcosa di profondamente pericoloso: dare valore e cercare un senso nelle piccole cose (la sfera intima, gli affetti) rischia di farci dimenticare delle grandi. Sottrarsi alla routine per riscoprire il piacere per le minuzie quotidiane, anche se sono belle e piene di poesia, rischia di diventare il rovescio in fondo identico di quell’individualismo e di quella società della performance di cui dovrebbe essere la cura. Non siamo che fili d’erba, non dobbiamo portare il peso del mondo sulle spalle, sosteneva Zerocalcare nel suo “Strappare lungo i bordi”. Ma questo rifugio nel piccolo e nell’intimo, per quanto consolatorio, più che una riscoperta a me sembra una ritirata. Questo sguardo nuovo serve a cambiare, sì, il mio mondo ma anche, si spera, il mondo in generale. A farci riscoprire – nella difficoltà, nel dolore – sicuramente grati, ma anche un po’ più “politici”.
La repressione ha tante facce, non solo le manganellate e le denunce. Due giorni fa la Camera USA ha approvato a larghissima maggioranza l’Antisemitism Awareness Act. Un disegno di legge che assume la definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance, equiparando antisionismo e antisemitismo e che, divenuta legge, servirebbe a fare pressione sulle le università per punite (ad esempio espellere) chi manifesta per la 🍉.
Quando il saggio indica la “questione meridionale”, lo stolto guarda Geolier. L’antimeridionalismo esiste perché al Sud esiste un problema strutturale di povertà, emigrazione forzata, non accesso ai diritti.
Stanotte, 9 anni fa. @exopgjesopazzo tanti auguri a noi, la famiglia che ci siamo scelti ❤✊🏠
9 anni di @exopgjesopazzo (Napoli) FREE PAL 🍉 ❤✊
Senza dissenso, senza protesta, può esserci democrazia? Sulle contestazioni di questi giorni 🍉